Continua da "RETE ARANCIO E CONSUMO DEL SUOLO"

 
 

Si sono quindi posti in opera tanti edifici, sicuramente di più di quanti ce ne fosse bisogno, si sono cementificati milioni di ettari di territorio alterando l’equilibrio idrogeologico e divorando quello che, in ultima analisi, è un bene comune.

Intorno all’edilizia si sono compiuti gli atti di corruzione più evidenti; è sufficiente infatti cambiare un colore sulle carte del PRG per muovere fiumi di danaro ed appetiti incontrollabili.

Negli ultimi vent’anni non è stato necessario avere di che investire per diventare costruttore; le banche elargivano mutui con i quali si iniziavano i lavori, si vendevano poi le unità immobiliari ancora su progetto, si producevano quindi utili a pioggia senza aver investito neanche 1 centesimo.

L’edilizia era quindi l’unica attività alla cui imprenditoria non solo non si richiedesse di rischiare qualcosa, ma si garantivano utili enormi.

Non si è pensato però che il suolo potesse essere un patrimonio della collettività oltre che una proprietà privata.

Sono nate quindi intere porzioni di città alle quali la comunità ha dovuto garantire servizi, infrastrutture, collegamenti e tutto ciò è stato pagato col denaro pubblico, in pratica ognuno di noi ha dovuto pagare di tasca propria una quota per rendere più agevole il guadagno degli immobiliaristi, ogni cittadino ha rinunciato così ad una fetta di orizzonte o ad un angolo di paesaggio.

Ci sono zone d’Italia dove non c’è soluzione alla continuità del costruito, il centro abitato del Comune “X” finisce dove inizia quello del Comune “Y”, si è quindi impermeabilizzato una gran parte del territorio e la conseguenza è, oltre al mutamento ed all’antropizzazione del paesaggio, che il terreno rimasto libero non è più sufficiente ad assorbire le precipitazioni, che vanno ad ingrossare i corsi d’acqua provocando inondazioni. Il costo in vite umane, in attività produttive ed in danni economici si aggiunge così a quello di cui parlavamo prima.

Allo stato delle cose non si possono continuare a definire sulla carta del Piano Regolatore in scala 1:25000 le aree di sviluppo e di completamento urbano senza curarsi delle conseguenze, è necessaria al contrario una moratoria sul consumo del suolo.

Invece di ricorrere alla nuova edificazione, puntiamo al recupero del patrimonio esistente dando possibilità di cambi di destinazione d’uso e rendendo più elastici gli strumenti urbanistici al fine di facilitare questa operazione.

Oltre alle installazioni militari ormai dimesse, vi è tutta un’architettura artigianale ed industriale in disuso da anni, basterebbe cambiare la destinazione da opificio, magazzino o servizi in abitativo o commerciale, ciò aumenterebbe sì il carico urbanistico ma consentirebbe di smettere di divorare territorio e paesaggio, recuperando e dando nuova vita ad intere aree ormai degradate.

Alcuni sindaci, pochi per la verità, hanno già intrapreso questa strada, i risultati li vedremo nel confronto con altre zone del paese dove, vuoi per ricambiare dei favori ricevuti in campagna elettorale, vuoi per mancanza di una sensibilità sulla sostenibilità ambientale, vuoi per fare un po’ di cassa con gli oneri di costruzione, si continuano a rilasciare concessioni a edificare ai soliti gruppi di costruttori.

Ogni fatto negativo può comunque non esserlo in valore assoluto, infatti la crisi che stiamo vivendo, se da un lato crea parecchi problemi alle classi più deboli, dall’altro fa sì che, senza dover prendere decisioni politiche che scontenterebbero alcune lobbies di potere, sta azzerando la voracità di territorio: le banche non erogano più i mutui con la facilità di qualche tempo orsono, il mercato dell’edilizia sta subendo un contraccolpo, le tasse sulle seconde o terze case scoraggiano l’investimento immobiliare, mentre coloro che hanno necessità di riciclare danaro sporco investono, oggi come ieri, in nuove costruzioni.

Tale mercato, che per anni è stato gonfiato da un eccesso di domanda, sta lentamente virando verso livelli più rispondenti al reale valore degli immobili come già accade in molte parti del mondo occidentale. Sarebbe auspicabile che anche da noi, rimodulando la tassazione, divenisse conveniente affittare un appartamento dando vita così ad una sana concorrenza, che avrebbe il pregio di ridurre i canoni di locazione. In questo modo interi edifici che sono stati finora utilizzati come moneta di scambio per aumentare il loro valore ad ogni passaggio di proprietà, potrebbero entrare nella disponibilità anche di coloro che ne hanno bisogno, ponendo fine ad un’aberrazione che non ha riscontro in nessun altro settore dell’economia.

In Italia si parla poco di consumo di suolo, ovvero di quel processo di trasformazioni che comporta un cambiamento delle funzioni svolte naturalmente dal terreno e il passaggio a condizioni artificiali, spesso definitive: mancano regole e strumenti utili al suo contrasto ed è difficile avere dati attendibili e aggiornati sulla situazione.

Quando è lasciato al suo stato naturale, il terreno drena l’acqua e regola il suo ciclo, diminuisce il rischio alluvioni, regola il ciclo del carbonio, alimenta i corsi d’acqua, favorisce lo sviluppo di coltivazioni e allevamenti. È dalla sua qualità che dipende la nostra vita. Il suolo è un bene comune ed è soprattutto un bene finito, limitato.

Interrompiamo adesso questa deriva scellerata, basta col divorare aree fertili e chilometri di costa perché la facilità con la quale si può modificare il territorio purtroppo non ha il suo rewind. Dobbiamo essere coscienti che il paesaggio perso non potrà più tornare ad essere paesaggio.


Fulvio Bisanti


 (Febbraio 2013)

 

 

 

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